Una prof: ecco perché dico no alla scuola del merito

di Antonia Romano - venerdì 15 giugno 2012



Caro direttore,
leggo e ascolto sempre più frequentemente autorevoli interventi sulla meritocrazia e sull’eccellenza. Ma cosa è il merito? Qual è il profilo professionale di un insegnante? Cosa caratterizza un “bravo insegnante?” Ha senso ragionare sulla valutazione degli insegnanti in servizio senza porre alcun pensiero intelligente sui meccanismi di reclutamento del personale? L’ultima trovata del Tfa la dice lunga sull’assenza di tale pensiero. E poi, chi valuterà il merito degli insegnanti? I soliti superesperti superpagati? I cattedratici universitari?




Tutti constatiamo quanto gli accademici, che laureano insegnanti preparati sui contenuti ma privi di competenze per insegnare efficacemente, siano ignari delle problematiche quotidiane di chi affronta classi eterogenee, complesse, tumultuose. Gli studenti ogni giorno entrano in una scuola sempre più distante dal loro mondo reale, sempre più polverosa, anche se le Lim hanno fatto sparire i gessetti, sempre più ingessata perché condizionata dal rispetto delle rigide norme sulla sicurezza, utilizzate come alibi per immobilizzare gli alunni seduti ai banchi, castrando ogni tentativo di sviluppo di autonomia, ogni minimo segnale di responsabilità individuale, anche nei semplici spostamenti all’interno degli istituti. Salvo poi pretendere di valutarne l’autonomia in sede di scrutini finali! 
Provo sgomento quotidiano di fronte alla riduzione delle risorse, che colpisce sempre il settore scolastico, la sanità, la magistratura: i capisaldi di una società civile. Ci sono ancora i Fondi sociali europei, ai quali si attinge abbondantemente, con eccellente creatività progettuale. Ma siamo certi della reale ricaduta che i megaprogetti hanno sugli apprendimenti? Perché non si valuta la reale ricaduta nel tempo di ogni azione sostenuta con fondi pubblici? Perché i controlli si limitano solo e sempre alla rendicontazione economica?
Ritengo indispensabile andare verso una scuola di qualità, dove, per favore, siano bandite le parole “eccellenza” e “meritocrazia”. La scuola di qualità è una scuola equa, che fornisce a tutti strumenti per orientarsi nel mondo, per abitarlo con senso critico e con coscienza civile. Pone tutti gli studenti alla pari, in termini di risorse per l’apprendimento, garantendo la personalizzazione dei percorsi, che finora è stata solo uno spot che ha assicurato proficui guadagni a “esperti”, spesso venditori di aria fritta. Una scuola di qualità è fatta da insegnanti preparati a insegnare, non solo portatori di saperi enciclopedici e dogmatici da trasmettere e da insegnanti che si rifiutano di dare ripetizioni private agli studenti. 
Perché sappiamo tutti che, soprattutto i figli della medio/alta borghesia italiana, se hanno una pur minima difficoltà, frequentano scuole parallele fatte di lezioni private, pagate a nero, magari garantite dal collega della sezione accanto. E questo rende più semplice la vita agli insegnanti di classe, che non devono scervellarsi a cercare chissà quale strategia didattica per rendere efficace l’apprendimento di ogni alunno.
E se si ritiene che le settimane linguistiche all’estero e i viaggi d’istruzione siano momenti importanti per apprendere anche in modo non formale e informale, allora si garantisca a tutti l’opportunità di parteciparvi. È vero che le scuole intervengono economicamente su chi ha necessità, ma bisogna dimostrare di essere davvero poverissimi, mentre c’è il cosiddetto “ceto medio”, costituito soprattutto da lavoratori dipendenti che stanno sostenendo l’economia del Paese e le banche europee pagando le tasse, che sulla carta non è povero, ma che i soldi per queste iniziative oggi fatica a procurarli.  

Una scuola equa impedisce che ci siano studenti esclusi da uscite didattiche perché “si comportano male”. Gli stessi non sono esclusi da pallosissime lezioni di storia o di scienze, ma sono costretti a parteciparvi, immobili come statue dietro i banchi, o a subirle fuori dall’aula con una “risorsa appositamente individuata”. Una scuola equa bandisce i “premi di fine anno per il merito”, se questi si basano solo ed esclusivamente sui risultati finali, senza tener conto dell’impegno e del progresso individuale. Una scuola di qualità è fondata sull’analisi dei processi di apprendimento, sulla valorizzazione delle discipline scolastiche da utilizzare per costruire competenze di cittadinanza, sulla valorizzazione dell’errore come occasione per apprendere e non come “peccato” da sanzionare, sulla valorizzazione dell’autonomia individuale e, soprattutto, sulla costruzione del senso di responsabilità individuale. È questo che farebbe la differenza ed è questo che bisogna favorire innanzitutto negli insegnanti: lo sviluppo del senso di responsabilità individuale. 
Finché resteremo ancorati a un’idea di responsabilità diffusa e condivisa, che ne sfuma l’importanza e ne riduce il peso, regaleremo agli utenti solo chiacchiere, continueremo ad alimentare gli incassi degli esperti esterni, ai quali spesso sono delegati momenti didattici importanti, che risultano solo piccoli spot di didattica non formale, spesso distante dai percorsi di didattica formale proposti quotidianamente. Gli insegnanti continueranno a disertare i laboratori, pensando di non doversi assumere la responsabilità della sicurezza di ogni alunno, ma assumendosi quella, non perseguibile economicamente o penalmente, di impedire occasioni importanti di apprendimento efficace, contribuendo al dilagare dell’ignoranza scientifica che colpisce la nostra popolazione. 
La vera sfida è, invece, utilizzare le conoscenze e le abilità apprese per esplorare i territori di confine tra le diverse discipline, per costruire saperi integrati, che non siano un puzzle di nozioni, per scoprire regole e leggi, per costruire competenze di cittadinanza basate sulla capacità di porsi e risolvere problemi complessi, di costruire ragionamenti, di congetturare, di progettare, di argomentare, di selezionare con senso critico informazioni provenienti da molteplici canali e da diverse fonti. E forse così potremmo anche affrontare più efficacemente il problema dell’abbandono scolastico, caratterizzato dal non andare più a scuola, senza, però, ignorare un altro abbandono, che dovrebbe spaventare di più, perché non è riconducibile a categorie sociali, è trasversale e sempre più diffuso: l’abbandono di chi garantisce a scuola la presenza fisica, ma la cui mente è fuori dall’aula e i cui interessi si spengono con il suono della campanella delle 8: cosa facciamo per questi nostri figli? 
Non rispondete che il ministero sta varando norme per la valutazione dei docenti e per il sostegno della meritocrazia. Non ditelo, perché anche se le proposte contenessero principi validi, facciamo i conti con una realtà molto complessa e contaminata da troppi interessi economici, a cominciare da quelli di chi accumula capitali sulle reali o presunte difficoltà di apprendimento dei ragazzi, senza porre e porsi interrogativi su come le diverse discipline sono proposte e su come si valutano gli apprendimenti delle stesse discipline.

La scuola che vorrei è una scuola che non c’è, è una scuola in cui tutte le energie e le risorse dovrebbero essere spese per la crescita intellettuale dei nostri studenti, che sono i nostri futuri decisori politici. È una scuola in cui riscoprire una nuova etica della professione insegnante, assegnando a questa il giusto riconoscimento sociale e la forte valenza politica, nel senso più nobile del termine.