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Prove di ignoranza

di   Adriano Prosperi 


Regole vecchie, inventate da burocrati. Come quelle per l’assunzione di nuovi insegnanti. Ma la scuola non ha ancora assorbito i vincitori dei concorsi di 15 anni fa


Questa rubrica parla in genere di un libro o di un saggio per ricavarne qualche riflessione. Ma oggi, dietro l’albero è alla foresta che siamo obbligati a guardare. L’immagine dell’albero e della foresta piaceva a Carlo Dionisotti, un grande storico della cultura italiana, un caso di emigrazione intellettuale di cui furono colpevoli i meccanismi dei concorsi universitari italiani del secondo dopoguerra. Dionisotti se ne andò a Londra, all’Italia restarono i meccanismi concorsuali. Cambiati da allora, ma in peggio. Se un Dionisotti redivivo tornasse a presentarsi a un concorso, avrebbe dei problemi: nelle regole di ammissione dei candidati l’opera che assorbì anni di lavoro prezioso e grandissime energie del giovane Dionisotti, l’indice analitico del “Giornale storico della letteratura italiana” non sarebbe probabilmente nemmeno ammessa. Nessuna delle categorie inventate in vista del concorso futuro annunciato da questo governo la prevede.



Queste regole preventive hanno il torto di mettere il carro davanti ai buoi: arrivano a cose fatte, quando cioè i candidati hanno già lavorato e pubblicato senza poter prevedere che sarebbero stati selezionati sulla base dell’etichetta editoriale, del titolo della rivista e del genere letterario dei loro lavori. Ridicolo: ma di un ridicolo coerente con la natura profondamente illiberale della nostra cultura, che deduce da categorie inventate burocraticamente invece di lasciare liberi i giudici di leggere e valutare quello che leggono mettendo in gioco solo la loro intelligenza e la loro coscienza. Come meravigliarci se da questa cultura escono prove di ignoranza come quelle che si sono viste nei quiz elaborati da anonimi esperti ministeriali per il Tfa (tirocinio formativo attivo, o piuttosto trattamento di finta ammissione all’insegnamento)? E gli ammessi ai suddetti Tfa sono solo una delle tante categorie che guarderanno con scarso favore al concorso per le scuole medie annunciato da questo governo, mentre ancora quelle scuole non hanno finito di assorbire i vincitori del concorso precedente vecchio di quasi tre lustri.
Ma oggi, dicevamo, bisogna guardare alla foresta intera. In questo nostro paese sta montando una minaccia che riguarda i libri nei luoghi propri dove si leggono e dove si impara a leggerli e a scriverli: università, biblioteche. C’è la malattia terminale di una importante biblioteca, quella dell’università di Pisa. Ne avevamo accennato tempo fa e da allora le cose sono andate avanti nel modo peggiore. Si è accesa una guerra tra libri e professori. Si tratta di decidere chi debba abitare nello storico  Palazzo della Sapienza. Finora ci sono stati insieme, ma è scattato un tipico litigio di condominio: e naturalmente sono i libri che hanno perso. Del resto, è ovvio: non hanno nessun peso nei meccanismi di potere accademico, non votano, parlano solo a chi li interroga. Se ne andranno, chissà dove. Qualcuno, i più antichi e pregiati, avrà ospitalità in qualche museo, gli altri sono in cerca di asilo: una parte è già in esilio fuori città,  le altre centinaia di migliaia finiranno in conventi e stalle, lontano dall’università. A meno che qualcuno non abbia pensato all’idea dominante, quella della privatizzazione: a chi pensa di privatizzare Brera, ci vorrà molto meno a buttare sulle bancarelle qualche tonnellata di libri. E intanto l’agosto, mese di tradizionale distrazione civile, ha portato altre cupe novità. Se Pisa piange Napoli non ride. Da Pisa l’ombra di Galileo esiliato dalla Sapienza saluta quelle di Giordano Bruno, di Genovesi e di Giannone che se ne vanno dall’Istituto di studi filosofici. Quell’Istituto, mirabile eccezione alla regola del disprezzo delle classi dirigenti italiane per gli investimenti in cultura, è stata la creazione straordinaria dello spirito grande e generoso di Gerardo Marotta. Oggi apprendiamo che una parte di quella biblioteca, circa trecentomila volumi, finiranno in un capannone a Casoria. Su strade simili si preparano a trascinarsi seicentomila volumi pisani. Nel silenzio e nell’indifferenza generale.