Così la scuola torna a De Amicis

di Sergio Mattarella - 5 settembre 2008


L’inserimento a sorpresa del maestro unico nel dl del 28 agosto è stato
definito un colpo di mano: in effetti ne ha tutti i requisiti.
Il comunicato ufficiale del consiglio dei ministri di quel
giorno esclude espressamente che l’argomento sia stato inserito in
quel decreto e, inoltre non vi è alcuna urgenza dato che sarà applicato
tra un anno.
Ma il vero colpo di mano, sostanziale, sta nell’aver
deciso una questione di questa portata con decreto legge, in
vigore già da quattro giorni: con poche righe viene travolto
l’ordinamento, il modo di essere di un intero
settore scolastico fondamentale e, finora, il più efficiente.
In questo
modo si è riusciti a eludere confronto, discussione e un vero esame
parlamentare.
La Gelmini, inoltre, si è abbandonata a dichiarazioni
perentorie: «La scelta dei tre maestri alle elementari non ha avuto
nessuna motivazione educazionale e pedagogica.
È stata fatta per aumentare
il numero degli insegnanti». È sorprendente che un ministro
dell’istruzione si esprima in maniera così grossolana su una riforma
realizzata con serietà diciotto anni addietro: occorre più rispetto
verso scelte fatte da altri governi e dal parlamento se si vuole, a
propria volta, essere rispettati.
La riforma del ’90 fu il risultato di
un lungo e approfondito dibattito; non soltanto politico e parlamentare ma
anche della cultura, anzitutto tra i pedagogisti, del mondo della scuola,
tra le associazioni di docenti e nel sindacato.
Avverto come un privilegio
aver firmato quella riforma come ministro della pubblica istruzione.
Ma sarei presuntuoso se pensassi che è stata la mia riforma: è nata
da questo ampio concorso di elaborazione, di cui è giusto ricordare
il contributo fondamentale dell’Associazione maestri cattolici,
allora guidata da Carlo Buzzi, quello del presidente della
commissione istruzione, Francesco Casati e l’opera di un serio servitore
dello stato, il direttore generale delle elementari Aurelio
Sinisi.
 La ragione della riforma del ’90 non è stata, al contrario
di quanto incautamente dice la Gelmini, «aumentare il numero degli
insegnanti» che non è aumentato, e neppure quello di mantenerne il livello
a fronte del calo demografico.
La ragione è stata la consapevolezza del
grande ampliamento dell’ambito dei saperi che la scuola elementare era
chiamata a impartire ai bambini verso il duemila. Bambini che, già
allora e oggi molto di più, giungono alla scuola elementare con numerosi
elementi di conoscenza acquisiti dalla tv e dai mini computer; bambini
chiamati ad affrontare la realtà del loro futuro con il bisogno di
padroneggiare conoscenze e strumenti molto più articolati di quanto si
proponeva ai bambini di decenni addietro: la scuola elementare non è
più soltanto insegnare a leggere e scrivere, a far di conto, un po’ di
geografia e la storia patria.
Quella – sia detto con molto rispetto – è
la scuola di De Amicis, che è stata di fondamentale importanza
per unificare il paese, per alfabetizzarlo e per trasmettere buone norme
basilari di comportamento ma non è quella di oggi. L’atteggiamento di
amarcord verso il maestro unico con cui il ministro copre la manovra di
drastico taglio di bilancio, e che trova alcuni sostenitori che tendono a
pensare che il mondo sia rimasto quello della loro infanzia, ormai può
essere riferito alla scuola materna ma non più a quella elementare di oggi
e di domani.
L’ampiezza di contenuti che questa deve trasmettere e il loro
adeguato approfondimento non possono essere affidati a un solo insegnante
se non tagliando contenuti o riducendo alla superficialità il loro
insegnamento. Oggi alle elementari si insegna non soltanto italiano,
storia, geografia e matematica (questa in modo ben diverso dal passato):
si insegna, e si deve insegnare, anche inglese, musica, tecnologia, arte e
immagine, scienze, educazione fisica; si realizzano laboratori di teatro, di
cinema, di capacità di uso dei materiali.
Tutto questo, tutto, è
necessario per i bambini di oggi: come si può pensare che venga svolto da
un solo insegnante se non con superficiale approssimazione? Che vi sia un
insegnante prevalente, condizione prevista dalla riforma del ’90 e
rafforzata dal ministro Moratti, è bene ma non è possibile un
maestro unico senza piombare in un passato estraneo alla condizione
odierna.
Difatti la scelta che il governo opera è brutale: l’orario di
insegnamento della scuola elementare si contrae, repentinamente, a
ventiquattro ore: il tempo che la scuola italiana dedica ai bambini perde
molte ore a settimana, trenta ore al mese in meno. Le famiglie saranno in
difficoltà e l’insegnamento impartito ai bambini perderà segmenti
importanti di contenuto e scenderà di qualità. In aggiunta l’età degli
insegnanti, senza ricambio per molti anni, dovendo riassorbire quelli in
soprannumero, salirà sempre di più, e anche questo è un danno; e verrà
meno il passaggio di esperienze tra chi insegna da tempo e chi inizia a
insegnare oggi, per il semplice motivo che non vi sarà chi inizia a
insegnare.
La vera ragione del ritorno al maestro unico è chiarita dalla
stessa formulazione della norma del dl: il risparmio di bilancio,
tagliando decine di migliaia di posti di insegnante.
Intendiamoci: tagliare le spese e, se ragionevole, i pubblici dipendenti è
bene ma soltanto se l’effetto è il miglioramento del servizio reso al
paese. In questo caso è il contrario: il risultato è una brusca e
repentina contrazione della qualità del servizio scolastico primario.
È
davvero un grave passo indietro ed è un peccato contro il paese e il
suo futuro: la nostra scuola elementare è definita dagli istituti di
valutazione internazionali tra le migliori al mondo.
Lo era anche prima
della riforma del ’90 ma il merito di questa è averne mantenuto alto il
livello qualitativo nelle ben diverse condizioni di oggi rispetto alle
stagioni precedenti.
Non si dica, per coprire questa brutale operazione
contabile, che il bambino è più rassicurato se a scuola incontra una sola
figura: bambini abituati a una vita di interrelazioni intensa come
oggi avviene e che in famiglia hanno quanto meno due interlocutori nei
genitori e in numero maggiore se vi sono fratelli e frequentano i nonni
sono abituati a più figure di riferimento; che, tra l’altro, consentono
loro maggiore libertà di relazione.
Pregiudicare con tanta
frettolosa leggerezza il nostro miglior settore scolastico si inserisce in
una visione più volte manifestata da questo ministro: occorre cancellare
gli ultimi quaranta anni della scuola italiana. Desta preoccupazione un
ministro dell’istruzione che mostra di pensare che la storia della scuola
italiana cominci oggi. In questi decenni si è verificato un
grande fenomeno di avanzamento sociale, un’autentica pacifica rivoluzione
positiva: l’istruzione diffusa e generalizzata in Italia, per tutti e
ovunque. Si è realizzato, cioè, uno dei principali dettati della
Costituzione sotto la guida di ministri e di forze politiche la cui
opera merita di essere rispettata.
All’inizio degli anni sessanta soltanto un
bambino su quattro proseguiva gli studi oltre le elementari e soltanto uno su
dodici andava oltre la scuola media: a partire dalla riforma del ministro Gui si
è realizzato il sistema scolastico nazionale italiano. Le scelte di quegli anni
vanno rispettate e va difesa l’attuazione del diritto allo studio. Non vorrei
che fosse questo, in realtà, il vero approdo: indebolire questo sistema che
offre opportunità di istruzione a tutti per sostituirvi un sistema, in cui fatte
salve alcune punte di eccellenza consegnate al mercato, si abbandoni tutto il
resto, cioè la scuola per tutti, e si scarichi sugli enti locali l’onere
maggiore della risposta alla domanda di istruzione, tornando in questo modo non
a De Amicis ma ancor più indietro.

SERGIO MATTARELLA

http://www.europaquotidiano.it/2008/09/05/cosi-la-scuolatornaa-de-amicis/