Dopo la firma della parte economica del CCNL Scuola 2022-2024, avvenuta il 5 novembre all’Aran, i sindacati firmatari hanno salutato l’accordo con entusiasmo. Titoloni, dichiarazioni trionfali, promesse di “recupero del potere d’acquisto”: ma basta leggere i numeri per capire che di storico, in questa intesa, c’è ben poco.
L’aumento medio – neppure 50 euro netti sui minimi tabellari – viene presentato come il primo passo verso un recupero del 18% del potere d’acquisto entro il 2030. Una cifra che suona bene, certo, ma che regge solo se si accetta la narrazione fantasiosa dei 416 euro lordi spalmati su nove anni, annunciati dal Governo e ribaditi dal Ministro Valditara. Peccato che, al netto delle promesse, la realtà economica sia un’altra: un recupero diluito nel tempo, che non tiene conto del ritmo reale dell’inflazione e che rischia di tradursi in una perdita secca per migliaia di lavoratori della scuola.
I sindacati parlano di un “percorso di riequilibrio” che coprirebbe l’impennata inflattiva degli ultimi anni e si completerebbe con i prossimi rinnovi contrattuali (2025-2027 e 2028-2030). Ma è difficile non notare la contraddizione: si parla di recupero del potere d’acquisto mentre gli stipendi, di fatto, continuano a inseguire i rincari del carrello della spesa, delle bollette e dei mutui.
Un docente, un collaboratore scolastico, un amministrativo non vivono di previsioni a nove anni. Vivono di stipendi che oggi, nel 2025, faticano a coprire le spese mensili. E mentre i comunicati celebrano l’accordo come un passo avanti “storico”, nelle scuole si respira piuttosto l’amara sensazione che la politica e la rappresentanza abbiano perso il contatto con la realtà quotidiana del personale scolastico.
Il risultato? Un contratto firmato in pompa magna, con tanto di foto e sorrisi, ma che nella sostanza lascia invariato il problema di fondo: la scuola italiana continua a essere la grande dimenticata, e chi la fa vivere ogni giorno continua a pagare il prezzo più alto.