I falsi miti dei nordisti

Li cerchi pure tutti, la Lega Nord, i suoi capri espiatori. Finalmente anche al suo interno: stavolta immigrati, meridionali e giudici romani non bastano davvero. Ma faccia in fretta a riproporre la sua (forse brutale ma ben “radicata nel territorio”!) diversità “nordica”, ché è già allarme nel conformismo di prima pagina dei grandi quotidiani: ora che anche la Lega è compromessa con i vizi meridionali – si preoccupava Ricolfi su La Stampa ieri l’altro – chi difenderà le ragioni del Nord? E tutti a chiedersi: chi rappresenterà ora la “questione settentrionale”, chi saprà rispondere al “rancore” del Nord?





L’apprensione speciale per la sorte dei “barbari”, che già coltivarono con gli interessi particolari i semi della discordia civile, è un po’ gettare la maschera. I leghisti facevano soltanto il lavoro sporco, erano la manifestazione estrema e degenere di un sentimento profondo, una falsa coscienza che negava fatti e ribaltava argomenti fino al parossismo: “è ora di smetterla con queste aree deboli che sfruttano quelle forti”, con questo “sacco del Nord”. Non era questa l’intenzione originaria di un malinteso “federalismo fiscale” che, contro la Costituzione, avrebbe dovuto evitare la “redistribuzione” tra regioni ricche e regioni povere (“virtuose” e “viziose”, secondo il lessico corrente – dove il vizio, in un improbabile e grottesco “calvinismo” italico, coincide sempre con la povertà)? Della menzogna di un Sud inondato di risorse depredate al Nord e del luogo comune che ogni soldo destinato sotto Roma fosse sprecato o peggio, si nutriva quell’impulso tutto italiano e maramaldesco di “rivincita del vincitore”. Una pulsione che si fa più feroce proprio quando il vincitore non sa più vincere (com’è avvenuto in questo decennio di crescita lenta anche del Nord, o quando ha iniziato a perdere, con la crisi). Così, l’ostilità più vasta e maliziosa verso il Sud è maturata proprio negli anni delle politiche più antimeridionaliste, dei Robin Hood alla rovescia col bottino del FAS, generando al Sud una preoccupante deriva subculturale, coi Terroni à la Pino Aprile (alcuni già coi Forconi in mano), che di fronte al “nemico esterno” nordista si facevano ciechi e complici dei tanti “nemici interni” di vizio e malaffare.
In tutti questi anni, del resto, l’ideologia del “territorio”, del particolarismo territoriale che prese diverse forme politiche, è stata il frutto più risibile del fondamentalismo liberista, col passaggio dalla competizione egoistica tra individui a quella tra comunità. E pure quel fondamentalismo ha alimentato, finendo per mascherare le disuguaglianze sociali interne (che colpivano lavoratori subordinati e autonomi, artigiani e piccoli imprenditori che vivono del proprio lavoro), vere cause di declino e rancore, al Nord come al Sud (dove le disuguaglianze si concentravano e scaricavano i loro effetti sociali). Un ripiegamento localistico che ci ha resi incapaci di guardare al mondo, alle trasformazione dei mercati. Il berlusconismo – che tenne insieme le “due Italie” con offerte politiche diverse, ma con la diffusa insofferenza verso le regole e i doveri pubblici (dall’evasione benedetta al rogo delle leggi di Calderoli) – perfezionava ideologia e prassi del particolarismo: il denaro pubblico, che sarebbe stato inservibile allo sviluppo delle aree arretrate e all’adeguamento competitivo globale nel segno dell’innovazione, poteva sempre tornare buono per affari di cricca a ogni latitudine e per ingrassare rendite particolari e poteri fin troppo “radicati”, con prossimità pericolose alle organizzazioni criminali (che di radicamento se ne intendono, dal Sud al Nord). A questo sarebbe dovuto servire un “buon” federalismo: a rinsaldare un patto, a evitare sprechi e camorre di denaro pubblico in ogni dove per garantire i servizi negati. La sua versione meschina, di stampo leghista, tutta tagli ai trasferimenti e competizione fiscale, non avrebbe certo riattivato la crescita, come pure propagandava. E la conseguenza politica più grave del localismo ideologico di questi anni è stata proprio lo smantellamento delle politiche di sviluppo, a partire da quelle per il Mezzogiorno: l’idea che bastasse puntare sulle aree forti di investimenti privati, e rispondere così alla “questione settentrionale” che minacciava secessioni. Tutto questo ha fatto male al Paese, dal Sud al Nord: dal 2002, dagli anni in cui la quota di spesa in conto capitale del Sud è crollata sotto il suo “peso naturale”, la spesa pubblica complessiva per investimenti è declinata dal 7,7% del PIL al 5% del 2010, e le stime recenti sembrano peggiorare.
La crisi dà la misura di tutto il fallimento di queste idee, e restituisce il Sud come straordinaria emergenza nazionale (per crollo della domanda, della produzione, per l’inoccupazione e la povertà) che mina le possibilità di ripresa dell’intera economia e riproduce equilibri sociali sempre più dipendenti e degenerati. Ora, affermare il forte nesso tra equità e crescita significa attivare tutte le leve di sviluppo e di coesione, che integrino il Mezzogiorno delle risorse “sottoutilizzate” in una strategia nazionale, per un sistema interdipendente e aperto qual è il nostro. Ci vorrà del tempo, e una buona dose di polemica politica, per diradare il fumo negli occhi di questi anni, che ha guardato al Paese confondendo le cause socio-economiche con gli effetti territoriali e locali. Però, leggere commentatori che denunciano la “meridionalizzazione” della Lega e non il fallimento della sua ideologia, e richiamano governo e opinione pubblica alla maggiore esigenza di rispondere a un Nord orfano di paladini, facendoci tutti alfieri della “questione settentrionale”, appare davvero l’ultimo e preoccupante segno del rischio di “trionfo delle idee fallite”.

di Giuseppe Provenzano


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