Riflessioni su scuola e neo-insegnanti: da Ernesto Galli della Loggia a Cinzia Mion


L’assurdo calvario dei neo-professori

Ogni docente di fresca nomina viene invitato dal Ministero a «descrivere e sintetizzare le ragioni del proprio posizionamento rispetto ai livelli di competenza percepiti». Il linguaggio usato dimostra tutta la distanza dal mondo reale

di Ernesto Galli della Loggia

Un «Bilancio di Competenze» (ma non era meglio, semmai, delle competenze?) è quello che ogni docente neo-assunto in base ai recenti provvedimenti del governo Renzi è chiamato a redigere dal Ministero dell’Istruzione in questi giorni. È un testo, si legge nella prescrizione ministeriale, inteso a invitare ogni docente a «descrivere e sintetizzare le ragioni del proprio posizionamento rispetto ai livelli di competenza percepiti». Ovvero, detto in italiano parlato, uno strumento perché ogni docente valuti le proprie conoscenze circa ciò che insegna nonché la propria capacità d’insegnamento, confessando le proprie eventuali inadeguatezze. Qualcosa, insomma, che — se non fosse nota la natura inoffensiva della ministra Giannini — potrebbe ricordare la pratica in uso nei regimi comunisti di far redigere a ogni militante sospetto di qualche infrazione un rapporto minuzioso, il più minuzioso possibile, circa il proprio operato.

Ma il Miur non è la Ghepeù naturalmente. È una benevola istituzione democratica che si preoccupa anzi di fornire all’indagato — non si tratta forse di un’indagine? — le Linee Guida per compilare il suddetto «Bilancio di Competenze». Siamo così informati che le «competenze» di cui si tratta si raggruppano in tre «Aree» (Didattica, Organizzazione, Professionalità), ognuna delle quali si articola a sua volta in «Ambiti di competenze», «a loro volta scanditi in Descrittori» (non è chiaro di che cosa si tratti: si dice solo con un certo orgoglio che lungi dall’essere stati tirati fuori da un cappello a cilindro, sono «derivati dalla letteratura nazionale e internazionale») . Al termine di questa odissea redazionale il Bilancio sarà finalmente inserito in un «portfolio formativo» che consentirà di «precisare gli elementi sui quali far convergere l’attenzione del tutor e del neo- assunto nella fase Peer to peer nella elaborazione del portfolio stesso». Chiarissimo, no?

Per il docente neo-assunto inizia a questo punto, tra gergalismi criptici e vuote ridondanze verbali (anche bizzarri neologismi: che cosa sarà ad esempio «l’agito» su cui si è invitati a riflettere? «quanto è stato fatto»? ) il calvario delle domande. Per quanto riguarda la didattica, l’indagato «ritiene di avere una conoscenza dell’epistemologia disciplinare adeguata a sostenere le sue scelte didattiche?», «ha una visione olistica delle competenze da sviluppare?», è abbastanza informato «per elaborare un piano personale che favorisca l’inclusione?». Il neo-assunto va messo con le spalle al muro: «ritiene di riuscire a proporre attività nelle quali gli allievi diventino protagonisti di processi di ricerca per costruire conoscenze e/o risolvere problemi?», «ritiene di avere un’adeguata conoscenza delle tecniche e degli strumenti per proporre una valutazione che potenzi le capacità di ciascuno allievo di progettare e monitorare il proprio apprendimento?»(mi chiedo come possa qualcuno «progettare il proprio apprendimento» non sapendo, come ogni studente immagino non sappia, che cosa dovrà apprendere: ma lasciamo perdere).

Non è facile, come si vede, fare l’insegnante in Italia. Bisogna ad esempio «progettare e gestire situazioni nelle quali gli allievi siano impegnati nel costruire conoscenza attraverso processi collaborativi e cooperativi, anche svolgendo attività d’insegnamento reciproco»; oppure «attivare situazioni didattiche che presentino sfide di conoscenza, o di produzione, o di risoluzione di problemi», e ovviamente «gestire la condivisione con/tra gli allievi per stabilire regole condivise o per prendere decisioni relative al funzionamento scolastico» ( mi sembra notevole il «gestire la condivisione per stabilire regole condivise»).

Poi naturalmente c’è «la partecipazione». Ritiene ad esempio il neo-assunto «di avere chiarezza sul concetto di inclusione e sulle sue implicazioni in termini di progettazione collegiale?», eh? lo ritiene? E come la mettiamo con la capacità di «innescare ed avvalersi di attività di peer review e peer learning tra colleghi»? Non pretenderà mica di fare tutto da solo, si spera! Risponda allora: «ritieni di sapere partecipare produttivamente all’elaborazione di progetti di gruppo che tenessero conto ( sic! “tengano” era forse meglio) delle posizioni individuali per giungere a soluzioni collettivamente accettate?». Bisogna sapere infatti che da molto tempo la bestia nera del Miur è l’individualismo. Tutto, infatti, deve essere sempre pensato, organizzato, progettato, collettivamente, insieme a qualcun altro, colleghi, organi, genitori, asl, e chi più ne ha più ne metta. Così come tutto deve sempre essere «partecipato»: l’ideologia della scuola italiana è una sorta di permanente soviet casareccio, di consiliarismo «de noantri».

Le cui parole d’ordine, «coinvolgimento» e «riunioni», sono martellate infinite volte in questo documento. «Ritieni di saper attuare strategie di coinvolgimento dei genitori nella vita della scuola?» inquisiscono ad esempio le Linee Guida. «Contribuisci — incalzano — alla gestione delle relazioni con i diversi interlocutori (parascolastici, di quartiere, associazioni di genitori, insegnamenti di lingua e cultura d’origine)?». Il tutto ovviamente — come dubitarne? — a maggior gloria della democrazia, per «contribuire al superamento di pregiudizi e discriminazioni di natura sociale, culturale o religiosa»; obiettivo in vista del quale appare più che sensato domandare al neo-assunto: «ritieni di avere chiarezza sui saperi che caratterizzano il futuro cittadino o sulle problematiche educative più frequenti nel panorama sociale odierno?».

Arrivato a questo punto dell’articolo il lettore si aspetterà di leggere, come accade di solito, alcune considerazioni finali dell’autore. Me ne asterrò: per carità di patria e per quel minimo di rispetto che ancora nutro per le istituzioni del mio Paese e per coloro che vi lavorano. E infine perché mi sento talmente soffocare dalla rabbia e dal disprezzo culturale per il documento in questione che ho paura delle parole offensive e di scherno che mi verrebbe sicuramente da usare. Una sola osservazione voglio fare per il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, oltretutto professoressa di glottologia. Nella vita normale, parlando normalmente, nessuno chiede a qualcun altro «hai chiarezza?» o «hai conoscenza?» Gli italiani dicono: «ti è chiaro?» «conosci bene?» «capisci?» «sei pratico?». Nell’ambito della scuola e dei suoi documenti invece no: si parla un’altra lingua. Ebbene, signor ministro, non le sembra degno di qualche riflessione che proprio mentre vuole e crede di «aprirsi alla società», di diventare «collegiale», «collettiva» «condivisa» e naturalmente «democratica» come si conviene , proprio in quel momento la scuola si rinserri nella fortezza di una lingua criptica e involuta, incomprensibilmente gergale, si affidi a formule consumate e ormai vuote, ad arabeschi concettuali, che forse stanno a indicare null’altro che la sua abissale distanza dall’Italia reale (sospetto dai suoi stessi docenti) nonché dal senso comune parente stretto del buon senso?

http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_12/scuola-assurdo-calvario-neo-professori-b7366470-e7b4-11e5-ba2c-eb6e47d0264e.shtml

 

A questo articolo risponde Cinzia Mion

Il grande inquisitore di…bozze!
di Cinzia Mion

E’ risaputo che ci sono docenti talmente affezionati alla loro disciplina da diventare totalmente allergici alla psicologia dell’apprendimento e ai modelli di insegnamento orientati allo sviluppo delle competenze degli allievi. E’ a questi insegnanti che si rivolgeva il professor Ernesto Galli della Loggia quando si è messo ad esaminare con pignoleria meticolosa le Linee guida riguardanti il bilancio delle competenze che dovranno compilare i docenti neoassunti?
Così deve essere successo (o no?) perché nel Corriere della sera di sabato 12 marzo è apparso un articolo del nostro dal titolo”L’assurdo calvario dei neoprofessori” consistente in una filippica intrisa di ironia pungente – perché il disprezzo egli dice di averlo trattenuto- contro il suddetto documento del Miur (in verità controfirmato da INDIRE). Di fronte infatti all’anno di prova dei docenti appena entrati in ruolo – attraverso la legge 107/2015, che ha azzerato le graduatorie, permettendo a tanti soggetti anche con poca o nulla esperienza di affrontare questo importante e delicato lavoro – il Ministero ha pensato di offrire un sostegno, una impalcatura che potesse prefigurare la co-costruzione di una buona professionalità “riflessiva”. Ahi, ahi …anche a me è sfuggito un termine da “ideologia della scuola italiana, da permanente soviet casareccio..” perché è così che l’illustre docente, editorialista di uno dei più autorevoli quotidiani d’Italia, definisce il clima culturale in cui è stato elaborato il documento in questione.
Penso invece al senso di disorientamento di molti docenti neoassunti che si sono sentiti “scaraventati nel ruolo”, bisognosi di tutto ma soprattutto di apprendere ad insegnare, di strutturare un po’ alla volta le competenze che costituiscono questa complessa professione, per rendersi conto dei punti di forza e di quelli di debolezza, al fine di poter migliorare; penso che è la prima volta che il cosiddetto anno di prova promuove azioni formative più articolate del vecchio sistema, diventato routinario ed inconsistente e mi convinco sempre più che chi prova ad incidere per cambiare la scuola incappa , prima o poi, in ostacoli come questi. Pretestuosi ed artefatti, quasi su commissione….
Ho notato la pedanteria cavillosa con cui è stata condotta l’analisi linguistica del testo, quasi da correttore di bozze fornito di lente di ingrandimento e pazienza certosina (cui prodest?) senza tenere presente che esistono dei lessici specifici di ogni disciplina che non solo “ha” un suo linguaggio ma “è” un linguaggio (com’è per la storia!). Forse la pedagogia e la didattica non hanno la dignità di saperi disciplinari?
“Bisogna sapere che da molto tempo la bestia nera del Miur è l’individualismo”, incalza ad un certo punto il nostro. Allora io immagino, deducendolo da quello che scrive, che attraverso il suo (implicitamente) autodecantato individualismo, vale a dire autogenerazione della sapienza di docente, lui non abbia avuto bisogno alcuno della cosiddetta “didattica” per fare l’insegnante. Questa sarebbe stata infatti un inutile orpello perché, naturalmente, chi “sa veramente” sa senz’altro anche insegnare (…dove l’ho già sentita questa?…)
Kaes direbbe che è stato preda della fantasmatica di “autoformazione o partenogenesi”(cfr.Renè Kaes, Quattro studi sulla fantasmatica di formazione e il desiderio di formare”)
Il nostro editorialista, che spesso si occupa di scuola solo per attaccarla, si è perso qualche piccolo riferimento culturale (succede professore, non se ne dolga) per esempio alle neuroscienze ed alle loro recenti scoperte sull’intersoggettività, che hanno riconosciuto la scientificità delle intuizioni di Vygotskij e del suo approccio socio-culturale (…oddio ci sono ricascata…), qualche accenno alle “comunità di pratica” quindi anche alle comunità professionali di docenti: tempi e luoghi dove si impara la professione (naturalmente per chi nasce sprovveduto e non già imparato…) ed all’importanza di diventare “professionisti riflessivi”(D.Schon).
Ricordo un altro attacco alla scuola (quale idea di scuola?) – e insieme alla scuola anche allora al Ministero – al tempo di “Cittadinanza e Costituzione”: il medesimo sarcasmo, il medesimo disprezzo la stessa supponenza tali da inficiare le argomentazioni. Ricordo la critica di precettismo catechistico e di moralismo rivolta agli estensori della proposta e rammento anche di aver pensato a come, quando si parla di etica (in questo caso di etica pubblica) o di morale, qualcuno arricci subito il naso e passi a tacciare il tutto di moralismo.
Cara Ministra Giannini, non si lasci impressionare, tiri dritto come ha fatto con l’attacco subito nel nome del famigerato gender. Gli attacchi sono simili, anzi parenti.
E a lei professor Galli della Loggia dico – da umile dirigente scolastica in pensione, che ha dedicato però la vita alla scuola e ai suoi docenti – che l’alterigia e il livore che trasudano da queste incursioni contro la scuola e contro chi sta provando a rinnovarla sono un po’ sospetti e troppo ad orologeria (come si usa dire).

PS. Su un dettaglio le posso dar ragione, caro professore: sul refuso del congiuntivo, (certo imperdonabile) sfuggito a più di un occhiuto revisore. Ma è troppo poco per ricostruire la scuola di cui il nostro Paese ha bisogno.

http://www.andisblog.it/?p=531